Balena blu e suicidio giovanile. Cosa c’è di vero?
Balena blu, era diventato sinonimo di terrore per tantissimi genitori di mezzo mondo e un fatto di assoluta incredulità per chi pur non essendo genitore ascoltava notizie riguardanti questo (vecchio) fenomeno legato alla nuova generazione di adolescenti denominati “nativi digitali”, termine coniato per indicare coloro che sono nati e quindi cresciuti all’interno dell’era digitale.
Ma Balena Blu non è l’ultimo espediente di giovani annoiati in cerca di forti emozioni.
Quello che avrebbe caratterizzato almeno a prima vista questa nuova tendenza era la sua apparente enigmaticità, la sua assurda e totale mancanza di alcun senso.
Ma andiamo con ordine.
Secondo un video della nota trasmissione “Le Iene”, Balena Blu è un macabro “gioco” (gioco inteso come insieme di regole) che consiste nel seguire un copione di 50 regole prestabilite, dietro la supervisione di un “curatore” (un tutor). Il curatore è una persona mai vista e conosciuta che ha il compito di seguire il giocatore nello sviluppo del gioco inviando continuamente informazioni inerenti le sfide. Ogni giorno il giocatore deve portare a termine la sfida giornaliera e in alcuni casi mostrare il risultato al curatore, come ad esempio l’essersi tagliato in una zona del corpo specifica, o l’aver visto una serie di filmati a sfondo horror.
Non si sa chi ci sia dietro tutto questo, chi sia a “reclutare” e ad inviare le regole ai potenziali giocatori. Al momento, sempre secondo la trasmissione di Italia uno è stato arrestato soltanto uno degli organizzatori, un ventiduenne russo, paese da cui sembrava aver avuto inizio il diffondersi del gioco.
Se altri “giochi giovanili” (come il surfing sui treni in movimento o il tuffarsi dal piano alto di un albergo nella piscina sottostante) pur nella loro estremità consentivano di fare dei ragionamenti, Balena blu sfuggiva alle consuete spiegazioni di sempre.
La sfida non consiste nel misurarsi con la morte ed uscirne indenni ma nel “non” sottrarsi ad essa.
Per superare la prova finale, infatti, il giocatore deve uccidersi lanciandosi dal palazzo più alto della propria città.
Qualcosa di davvero inconcepibile!
Questa volta non si tratta del solito gioco in cui cercare scosse di adrenalina e nemmeno la spiegazione sull’immaturità giovanile può venirci in soccorso nella sua comprensione, ed è difficile credere che si tratti della ricerca da parte di un giovane di approvazione e adulazione.
Difficile che ci sia tutto questo. Perchè stavolta alla fine del gioco c’è solo la pura e incomunicabile fine del proprio viaggio.
Un “game-over” in solitaria, o meglio, accompagnati da uno o più giocatori atti a filmarne le gesta estreme.
Terribile anche solo pensare qualcuno di questi ragazzi, possa addirittura fantasticaere sui commenti post-mortem.
Perchè da quello che “emergerebbe”, i ragazzi che sono riusciti e che riescono nell’ultima prova diventano una sorta di eroi, “quelli che hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo” come ebbero a dire alcuni compagni alla madre di una delle giovani vittime suicida.
Impossibile capire cosa passi nella testa di un adolescente in quel momento in cui “ha deciso” di non arrendersi e di andare fino in fondo.
Una cosa sola è certa: non è il brivido la molla che spinge e mantiene il tutto, perchè a differenza di altri giochi qui si vince con il proprio suicidio.
Suicidio, un atto catalogato come uno tra i più folli che un essere umano possa commettere. E se quindi di follia si tratta, siamo autorizzati a concludere che la spiegazione a tutto questo è di natura mentale, che il tutto è da addebitare alla condizione mentale di chi lo compie. E se poi la vittima è per di più indotta al gesto estremo da qualcun’altro, ne possiamo ragionevolmente concludere che si tratta di plagio mentale. Senza ombra di dubbio!
Ecco allora che i conti tornano, ecco allora che la spiegazione rassicurante per un atto così incommensurabile è stata raggiunta:
sono i ragazzi fragili di mente le vittime designate e la loro unica colpa è quella di essere delle facili prede da condizionare ed assoggettare. Discorso chiuso.
Eppure qualcosa non quadra. Dalle interviste sembrerebbe infatti che le vittime designate siano ragazzi come tanti altri, riconosciuti all’interno della propria cerchia di amici, ragazzi apparentemente sani, con tanto di relazioni sociali e di interessi.
Non quindi l’indecifrabile gesto di un giovane già afflitto dalla vita e per questo facilmente condizionabile ma ragazzi che ad un certo punto entrano in gioco perverso, macabro, micidiale.
Ora, se crediamo che dietro a tutto questo si nasconde soltanto il plagio di una mente debole o magari di una mente piegata e indotta alla follia con tecniche Kubrikiane, chiaramente, ci allontaniamo dalla verità.
Certamente c’è una giovane mente condizionata, una mente assoggettata, ma non da un gioco, ci deve essere qualcos’altro, qualcosa di ancora più insidioso.
In una società dove l’impresa più ardua per un adolescente è diventata la costruzione della propria identità e la gestione del vuoto, la ricerca di una propria individuazione pone enormi difficoltà, angoscia e inquietudine.
Le domande allora da porsi non sono soltanto psicologiche, da psicologo dico che la spiegazione non va ricercata unicamente in una fragile mente in via di sviluppo nè in una sofisticata tecnica di plagio mentale, ma nel loro abbraccio fatale, e in questa loro possibilità di incontro.
Sarebbe sbagliato spostare tutto il carico delle “responsabilità” sulle fragili menti dei ragazzi e degli occhi sfuggenti delle famiglie.
Questa volta l’interrogazione è di natura sociologica e culturale, oltre che psicologica, ed investe tutti noi, il vuoto e la mancanza di senso che rimandiamo continuamente a chi ci segue e prosegue.
Detto questo, seppur Balena blu (come è facile immaginare) resta soltanto l’ennesima notizia costruita per stupire e far audience, solleva un’interrogazione e una drammaticità purtroppo vere e sempre attuali: il suicidio giovanile.
Come ebbe a dire un passeggero con cui condividevo il diretto per Bologna:
“questi ragazzi sembrano come castelli: alti e imponenti, ma pur sempre espugnabili”.
E così anche Alessandro D’avenia a proposito dei cosiddetti “nativi digitali”, i giovani notoriamente considerati più intelligenti rispetto alle generazioni passate per il fatto di essere nati in un’epoca di intenso sviluppo tecnologico e cerebrale, così si esprime:
“Nell’uso generico di smartphone, social, pc sono rapidissimi, ma in fin dei conti raggiungono un livello simile a quello di un adulto. Ma quando si tratta di operazioni più complesse chiedono aiuto. Insomma il nativo digitale non ha un cervello nuovo o diverso da quello degli adolescenti della mia generazione. E la scienza lo conferma […]
Questo mito è diventato presto efficace proprio per la sua semplificazione. Ha dato una scusa ad adulti che non riescono più a farsi ascoltare e vedono la noia dipinta sui volti dei ragazzi: “ha un altro cervello, non può capire, non è colpa mia, altri tempi”. Dico una scusa perché in realtà si evita il vero problema […]
Invece non siamo di fronte ad un nuovo tipo di homo sapiens, non c’è una generazione diversa dalle precedenti, né una mutazione genetica […]
Insomma il nativo digitale è il volto che abbiamo dato ad una paura: la rapidità del progresso di questi anni e dei ritmi di vita a cui siamo sottoposti che porta il dialogo fra le generazioni, già di per sé arduo, a incepparsi di più. Il mito, una volta smitizzato, ci riporta faccia a faccia con il mostro: non ci capiamo e ci capiamo sempre meno perché andiamo velocissimo. La velocità è una delle cause della “crisi dell’esperienza”.
Andiamo così veloci che non riusciamo a fare esperienza delle cose, figuriamoci trasmetterla alla generazione successiva”.
Diego Chiariello
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